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Diciamo, entrare dentro, uscire fuori e l’italinglese del nuovo millennio

Treviso. Un incontestabile pudore mi pervade. Quale titolo, ma soprattutto, quale credibilità in materia linguistica possono legittimare la mia personale presa di posizione riguardo al lento ma purtroppo costante impoverimento della nostra lingua nazionale? 

Alcuni decenni fa, mamma mia quanti, troppi ahimè, qualcuno, non faccio il delatore di professione, scrisse sul biglietto di auguri per la Festa della mamma “Ti volio bene mamma”, con la “g” incastrata solo in un secondo momento. Qualche tempo dopo, nel pieno “Grande Scoppio” adolescenziale, con i primi pruriti emotivi e carnali per le più carine della classe, sempre lo stesso protagonista del nostro racconto osò inviare una cartolina ad un parente con il seguente testo di commiato: “Tanti cari saluti dal tuo stanghone…”.

Di questi tempi mi capita spesso di pensare a quei lontanissimi primi anni di vita ed al tormentato percorso scolastico il cui profitto formativo lasciava molto spesso a desiderare, in particolare, in italiano. Avete presente Salvatore, il monaco benedettino del romanzo “Il nome della rosa”, che si esprimeva in una lingua mista di latino e di volgare cui si aggiungevano anche lo spagnolo, il tedesco e l’inglese?

Ebbene, poco ci manca a considerare il nostro “eroe” un “Salvatore de’ noantri” degli anni ’60. Non potete immaginare quanta fatica e quanto tempo ci sono voluti affinchè egli riuscisse a raggiungere un decoroso e dignitoso livello del proprio italiano. Un cammino solitario, senza il supporto ed il sostegno di persone a lui molto care e che avrebbero dovuto essere invece più presenti nella sua vita. 

Per il personaggio della nostra piccola storia è stato come aver scalato uno sopra l’altro i quattordici ottomila del pianeta, incassando nel frattempo critiche e derisioni a non finire. Allora se si parlava e si scriveva un italiano approssimativo, infarcito di termini stranieri, si era considerati degli ignoranti. Ed era giusto che fosse così, più che legittimo. La nostra lingua è bella, ancora meglio, è bellissima. È ricca, ricchissima di vocaboli. Solo per questo meriterebbe più rispetto e pertanto un’adeguata tutela. 

Pensate, ad esempio, all’ormai fastidiosissimo ed inutile termine inglese “lockdown” di cui i giornalisti, i personaggi pubblici ed i privati cittadini non riescono proprio a fare a meno. Gli inglesi hanno solo questa parola a disposizione, hanno solo questo modo per descrivere una determinata e particolare situazione. Noi cosa abbiamo? Ecco di seguito alcune opzioni: confinamento fisico, confinamento sociale, isolamento fisico, isolamento sociale, quarantena, misura restrittiva o di contenimento, restrizione, protocollo di emergenza, chiusura, divieto di circolazione, distanziamento fisico, distanziamento sociale.  E questo solo per una parola tanto in voga in questi tristissimi momenti della nostra vita.

Ci si deve chiedere allora per forza il perché in questi ultimi anni, troppi, la stragrande maggioranza della popolazione, in particolare coloro che hanno fatto del linguaggio scritto e di quello orale la propria professione, soffra di un incontestabile complesso di inferiorità nei confronti dell’inglese. Sarà pure “economicamente” più forte e quindi diffuso, avrà certo anche i propri labirinti lessicali e di sintassi di cui andare fieri, ma resta da sempre un impenetrabile ed irrisolto mistero il suo inopportuno diffondersi nella nostra vita di tutti i giorni.

Questo nuovo imbarazzante idioma che si parla, che si scrive e dunque si legge ovunque, oggi non ha niente a che fare con l’italiano. È un linguaggio che non c’entra con la nostra millenaria storia e cultura, con le nostre tradizioni, con le nostre plurisecolari radici. Non è nient’altro che un oscuro linguaggio creato da una generazione di cappellai matti, forse sotto l’effetto di qualche sostanza stupefacente caraibica durante le quotidiane riunioni di redazione, e che si è diffuso anche grazie alla grave superficialità dei numerosissimi professionisti della comunicazione commerciale, insieme alle figure istituzionali di vario genere. 

Senza dubbio tutti un poco complessati ed ancor meno lungimiranti visto i danni che hanno causato e stanno provocando alla nostra lingua che si sta depauperando giorno dopo giorno, anno dopo anno. Se poi si va ad osservare nello specifico all’imbarazzante stato comatoso dell’italiano di oggi, in particolare di quello giornalistico, c’è proprio poco di cui andare fieri. Tra “bombe d’acqua, resilienza, criticità, piuttosto che, ripartenza, al netto, etc” (https://www.corriere.it/spettacoli/13_marzo_16/a-fil-di-rete-inerzia-telecronisti-calcio-grasso_5fcd78c2-8e07-11e2-8e0e-c5b76e411d4a.shtml) forse qualcosa di poco edificante e del tutto poco promettente si sta prospettando per il futuro del nostro idioma.

Magari, per disperazione, vista la pluridecennale latitanza di chi dovrebbe invece intervenire si potrebbe almeno riscrivere la fine della prima parte dell’Articolo 1 della nostra Costituzione con la seguente nuova versione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e sulla lingua italiana”. Magari, ma magari no. Tanto a chi interessa della carta fondamentale del nostro ordinamento giuridico?

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